Il Segreto di Rosa – CAPITOLO 5
Il giorno successivo arrivò ed io mi ritrovai ancora vestita nel letto, con il
vestito da sera indossato, ancora tutta truccata e lo stomaco che mi
gorgogliava dalla fame.
Mi ricordai di quello che era accaduto, o meglio, quello che non era accaduto,
e mi salì una grande rabbia.
Non sapevo cosa pensare e cosa fare.
Mentre mi giravo nel letto, il mio telefono squillò e mi arrivò il seguente
messaggio: “Vestiti fra 30 minuti, ci troviamo al caffè sotto casa tua e ti
offro la colazione”.
Il cuore mi batteva forte e i pensieri cominciarono a turbinare nella testa.
Ero completamente confusa. Il messaggio non lasciava spazio a dubbi: "Ci
troviamo al caffè sotto casa tua". Era chiaro che forse voleva scusarsi.
Mi detti una rassettata veloce, mi cambiai abito, indossai il soprabito che
avevo lasciato sulla poltrona all’entrata ed uscii.
Il caffè sotto casa era un luogo che sembrava un po’ sospeso nel tempo; un
aspetto antico e la sua fama radicata nella città aveva qualcosa di magico,
come se ogni angolo custodisse una storia da raccontare. Le pareti, color crema
sbiadito, erano decorate con quadri invecchiati e cornici dorate che sembravano
appartenere ad un’altra epoca, forse quella degli anni '30 o '40. Il soffitto
era basso, ornato con decorazioni in stucco che, nonostante gli anni,
conservavano una certa eleganza.
Le luci soffuse creavano un’atmosfera intima e accogliente, mentre il profumo
di caffè appena macinato si mescolava all’aroma di croissant e dolci freschi.
Il pavimento, di cotto fiorentino, era lucido ma portava i segni del tempo. Le
mattonelle, leggermente sconnesse, sembravano aver dovuto sostenere il peso di
chissà quante vite che vi avevano camminato sopra, ognuna lasciando un’impronta
impercettibile, ma definitiva. Era come se ogni piastrella raccontasse una
piccola storia, una memoria di passi di persone che si erano fermate a
sorseggiare un caffè, a scambiare parole, a vivere momenti di felicità,
riflessione, tristezza, segreti mai svelati, verità.
I tavolini, piccoli e tondi, erano disposti in modo da permettere alle persone
di conversare senza essere disturbate. Le sedie in legno scuro erano rivestite
di un velluto azzurro che, con il passare degli anni, aveva preso un tono più
spento, ma senza perdere la sua raffinatezza. Le vetrine, grandi e luminose,
lasciavano intravedere il viavai della città, ma una volta dentro,
l’inquietudine del mondo esterno sembrava svanire, lasciando spazio solo a
conversazioni discrete e momenti di riflessione solitaria.
Era un luogo che aveva visto il passare delle generazioni, un caffè che non
cambiava mai, ma al contempo cambiava tutto. Un rifugio che aveva il potere di
far sentire chiunque al suo interno come se fosse in un angolo protetto della
città, lontano dalla frenesia che la circondava.
Ed era proprio qui, in questo angolo di storia, che ora mi trovavo, aspettando
una risposta a ciò che era accaduto.
Lo vidi entrare, con un passo deciso e sicuro, vestito di chiaro, un completo
che non lasciava dubbi sulla sua eleganza innata. La giacca grigia,
perfettamente stirata, si abbinava alla camicia bianca che spiccava sotto, e i
pantaloni erano tagliati con una precisione che denotava un'attenzione ai
dettagli che solo chi conosceva la bellezza della classe riusciva a mantenere.
Ogni movimento sembrava studiato, ma naturale.
Non appena varcò la soglia, il suo profumo mi colpì d'improvviso, avvolgendo
l'aria con una scia leggera ma intensa. Un misto di legno di cedro e una
sfumatura di vaniglia, ma anche un accenno di pepe che rendeva il profumo un
po’ misterioso e allo stesso tempo audace. Mi tornò subito alla mente il nostro
incontro precedente, quando ancora il suo profumo riempiva l’aria della camera
da letto.
Mi colpì quella sensazione di familiarità che mi suscitava il suo odore, come
se fosse un filo che legava il passato al presente.
Con un grande sorriso si avvicinò al tavolo, mi baciò la mano e mi disse:
“Buongiorno Principessa”.
Io risposi: “Buongiorno”.
Lui: “Cosa prendi, tesoro?”
Dissi: “Prenderei lo strudel con la panna e un cappuccino.”
Arrivò il cameriere, giovane, con modi ancora un po' incerti, che tradivano il
fatto che era appena uscito da scuola. La sua camicia bianca impeccabile,
leggermente troppo grande per lui, sembrava un po' fuori posto, come se fosse
stato catapultato in un ruolo che, pur facendogli onore, non aveva ancora
completamente assimilato. I suoi occhi, un po' timidi, guardavano il nostro
tavolo con una curiosità che si mescolava a una certa ansia di fare tutto nel
modo giusto.
Si avvicinò con il taccuino in mano, pronto a prendere l'ordinazione.
Appena il cameriere si allontanò dal tavolo, chiesi a Gianni: “Cosa ti è
successo ieri sera, come mai non sei venuto?”
Lui, guardandomi dritto negli occhi, mi disse: “Sai, mia moglie non stava molto
bene, quindi sono dovuto rimanere a casa.”
Mi si gelò il sangue sentendo quelle parole.
Continuai: “Ma allora quella donna al teatro l’altra sera, era lei?”
Lui rispose: “No, quella è una mia vecchia amica, e ogni tanto usciamo.”
Non sapevo davvero cosa pensare.
Arrivò la nostra colazione, il cameriere, un po’ incerto, ci servì due
cappuccini, lo strudel con panna e una torta di mele con vaniglia.
Non sapevo come continuare la conversazione, mangiammo in silenzio e poi lui
esordì: “Allora, cosa mi racconti di te?”
Un po’ imbarazzata, cercai di mantenere la calma mentre pronunciai le parole,
come se stessero uscendo da un posto lontano, da un angolo nascosto della mia
mente che avevo sempre cercato di tenere ben protetto. La sua presenza, quel
momento, mi costrinse a mettere ordine nei miei pensieri, a fare chiarezza su
chi ero, su ciò che avevo costruito e perso negli anni.
“Sono divorziata da 5 anni, sono single, dirigo uno studio di avvocati e
commercialisti, e ogni tanto esco con amici, viaggio molto durante i mesi caldi
e la casa che hai già visto apparteneva a mia nonna.”
Le parole uscirono più fluide di quanto avessi previsto, quasi come se fosse
una risposta automatica a una domanda che non mi era mai stata davvero fatta.
Una sorta di copione che avevo recitato innumerevoli volte nelle conversazioni
che non avevano mai davvero toccato il cuore delle cose.
Mi resi conto che, nonostante la fretta con cui le avevo dette, c’era
un'incredibile verità in quel momento: tutto ciò che avevo appena detto era la
mia vita, nel bene e nel male. Eppure, c’era ancora un velo di incertezza su
quello che sarebbe successo ora. Non ero più quella che avevo scelto di essere
anni fa, ma nemmeno ero ancora sicura di cosa volessi davvero, e questo
pensiero mi fece sentire, per un attimo, vulnerabile.
Poi dissi: “Di te cosa mi racconti?”
Lui mi guardò, i suoi occhi scuri pieni di una curiosità che non riuscivo a
decifrare completamente. Sembrava voler spingere la conversazione in una
direzione che mi metteva un po' a disagio, ma allo stesso tempo c'era una certa
dolcezza nel suo tono, come se volesse davvero sentire la mia versione della
storia.
Disse: “Oggi non parliamo di me, raccontami ancora. Com'è stata la serata che
abbiamo trascorso insieme l’altro giorno?”
Quelle parole mi colpirono più di quanto avessi immaginato. Il fatto che
volesse parlare di noi, di quella serata che, a dire il vero, avevo cercato di
mettere da parte nella mia mente, mi destabilizzò. L'avevo vissuta come un
episodio incompiuto, come qualcosa che non aveva mai davvero preso forma. Ma
adesso, a distanza di tempo, mi rendevo conto che non era stato solo un
incontro casuale; c’era stata una scintilla, qualcosa che non si era mai spento
del tutto, anche se non avevo voluto affrontarlo.
“Beh...” iniziai, cercando di trovare le parole giuste, “La serata è stata
molto intensa, ci sono stati momenti di passionalità e di qualcosa di
conosciuto, familiare, ma anche momenti di esperienze nuove, mai sperimentate,”
mi fermai un attimo, ricordando quel momento.
Le parole fluirono lentamente, come se mentre le pronunciavo rivivessi quelle
emozioni, di conosciuto e di non conosciuto. Lo guardavo e non capivo cosa gli
passasse per la testa, ma ripensando a quella sera, era come se fosse un puzzle
che aveva bisogno di essere in qualche modo completato.
Il telefono suonò, disse: “Scusami”, si alzò ed andò fuori a rispondere.
L’attesa fu lunga, ed io lo guardavo dalla vetrina del caffè che discuteva al
telefono animatamente, mentre andava avanti e indietro sul marciapiede.
Appena lo vidi riattaccare e rientrare, feci finta di nulla e cominciai a
giocherellare con la schiuma del cappuccino rimasta nella tazza.
Disse: “Scusami, devo andare, ho una grana da sistemare,” mi sfiorò le labbra
con le sue ed uscì.
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