IL SEGRETO DI ROSA – CAPITOLO 10 - ULTIMO CAPITOLO 

 

La mattina dopo mi svegliai un po’ stordita. Mi ci vollero almeno cinque minuti per realizzare o, meglio, per ricordare gli avvenimenti della sera precedente.


In che guaio mi stavo cacciando? Dovevo essere proprio impazzita.

Mi girai e vidi il posto nel letto vuoto accanto a me. Sul cuscino, però, c’era un biglietto:
"Non fare la dura, so che mi ami."


Lo rilessi parecchie volte. Quelle parole erano semplici, dirette, e crude… ma vere. Realizzai che aveva ragione: io lo amavo con tutta me stessa.

Con calma mi alzai, andai in bagno e sotto la doccia riflettei a lungo sul da farsi.


Fuori era una bella giornata, e con le amiche decidemmo di passare qualche ora al lago, a circa venti chilometri dalla città. Pensammo di fare un picnic e di rilassarci almeno per un giorno.

Partimmo presto, caricammo le vivande e alcune coperte nella Jeep di Giulia e ci mettemmo in viaggio.


La conversazione a bordo era allegra e piena di risate, ma io mi sentivo distante, con la testa tra le nuvole.
Mentre le ragazze parlavano e scherzavano, io guardavo fuori dal finestrino: i campi scorrevano veloci, le colline sembravano rincorrersi all’orizzonte. Le loro voci si mescolavano alla musica della radio, ma per me arrivavano da lontano. Non ero triste… ero solo confusa.

Giulia se ne accorse dallo specchietto retrovisore.
«Rosa, tutto bene? Ti vedo molto pensierosa.»

«Sì, scusate ragazze. Ho un caso che mi sta assorbendo molto.»
«Possibile che ti porti sempre il lavoro dietro?» insistette Giulia.


Ma io ormai non la ascoltavo più. La mia mente era tornata a Gianni, alla notte passata insieme, al suo corpo accanto al mio… e poi di nuovo al caso di Christine.

Ci volle quasi un’ora per arrivare a destinazione.

Con nostra grande sorpresa, Carlo era già lì: aveva noleggiato degli ombrelloni e delle sdraio, che aveva posizionato proprio a riva.
L’aria era ancora fresca, ma l’atmosfera era incantevole. Non c’era ancora nessuno e i primi raggi di sole cominciavano a illuminare le acque del lago, che sembrava ancora addormentato.

Sistemammo le nostre cose e Carlo ci invitò sotto il suo ombrellone. Su un telo aveva allestito una colazione deliziosa: brioche di ogni tipo, ciambelle, pezzi di focaccia e un termos di caffè pronto per essere servito.
Quanto è caro quest’uomo, sempre così premuroso con noi.

Dopo poco arrivarono anche alcuni amici di Carlo, in due macchine.
Dalla prima scesero volti che conoscevo. Quelli della seconda invece mi erano sconosciuti.
Fu l’ultimo a scendere, ma lo riconobbi subito dal modo elegante con cui uscì dall’auto.

Mi prese un colpo.
Non ci potevo credere.

Mi vide da lontano e si avvicinò con un gran sorriso ammaliante. Facemmo finta di non conoscerci.


Tutti si tuffarono sulle brioche, ma lui mi si avvicinò con una tazzina in mano e disse:
«Il caffè lo preferisci amaro o zuccherato?»


Abbassai lo sguardo, senza sapere cosa dire.
Giulia, a voce alta, intervenne:
«Lasciate stare Rosa, è molto pensierosa oggi… ha sempre la testa nel lavoro.»
Non replicai.

L’aria cominciava a scaldarsi, così decidemmo di metterci il costume e tuffarci nell’acqua ancora fredda.
Io non entrai in acqua, preferii restare sulla riva a godermi la scena.
Tutti correvano, si schizzavano, ridevano… erano tornati bambini.

Mi tornarono in mente le vacanze da piccola al mare, in Versilia, dove passavamo quattro mesi con mia madre e mia nonna. Ricordai il viaggio nella vecchia Diane carica fino al tetto, con gli spifferi d’aria che entravano dal tetto in tela e rendevano l’abitacolo simile a un aeroplano.
Lui, tra uno schizzo e l’altro, ogni tanto si voltava a guardarmi.
Io facevo finta di non accorgermene.

Arrivò l’ora di pranzo. Carlo, perfetto anfitrione, aveva già disposto tutte le pietanze al centro.
Mi sedetti per terra su un cuscino rosso. Carlo aveva pensato a tutto: tovaglia, bicchieri, posate, cibo, bevande, coperte… tutto era perfetto.

Si sedette di fronte a me. Accanto a lui si fermò Stefania: una donna affascinante, sportiva, capelli mossi biondi e occhi verdi intensi.
Capì subito che a lui piaceva. Il suo atteggiamento cambiò: diventò seduttivo, quasi teatrale.
Lei rideva, e stava al gioco.

Mi innervosii. E lui se ne accorse.


Per tutto il pranzo non le tolse gli occhi di dosso. Cercai di ignorarli, ma era più forte di me.
Mi alzai di scatto. «Vado a fare una passeggiata.»

Si alzò Paolo. «Vengo anch’io!»

Appena ci incamminammo, Paolo iniziò a parlare. Si era da poco lasciato con la moglie e cominciò a raccontarmi la sua storia.
Era l’ennesimo racconto di un uomo ferito da una donna egocentrica e manipolatoria.
Ma, mentre parlava, la mia attenzione si perdeva tra il sentiero, il canto degli uccelli, e le radici sotto i piedi.

Arrivammo su una collinetta che dominava l’intera radura. Sembrava di essere sospesi.

«Hai mai avuto la sensazione,» disse lui, fissando il lago, «che qualcosa dentro di te stia cambiando… ma non sai ancora in cosa?»


Mi voltai verso di lui. I suoi occhi erano ancora persi nell’acqua.


«Sì,» risposi. «A volte mi sembra di non riconoscermi. Come se stessi aspettando qualcosa… ma non so cosa.»

Lui annuì.
«O magari non stiamo aspettando nulla. Forse stiamo solo cercando di lasciar andare.»

Quelle parole mi colpirono.
«E se non ci fosse nulla da aspettare?» dissi. «E se dovessimo solo stare… qui?»


Si voltò. Stavolta davvero.
«Forse è proprio questo il punto. Forse abbiamo corso così tanto da dimenticarci come si fa a fermarsi.»

Un silenzio denso scese su di noi. Non era vuoto. Era pieno.


«Mi fai un po’ paura, lo sai?» dissi con un sorriso.


«Perché?»


«Perché dici cose che sembrano leggere i miei pensieri.»


Sorrise.
«Magari li sento, anche se non li dici.»

Mi venne voglia di appoggiare la testa sulla sua spalla. Non lo feci. Ma dentro, qualcosa si sciolse.

Ad un certo punto, un grido di donna ci fece sobbalzare. Entrambi ci girammo di scatto verso la riva del lago.

— Era… una delle ragazze? — chiesi, con i sensi all’erta.


Lui annuì, serio.
— Sembrava venire da dietro il sentiero. Andiamo.

Iniziammo a scendere di corsa lungo la collinetta, cercando di non scivolare sui sassi umidi. Il cuore mi batteva forte, ma non più per le riflessioni di prima: quel momento di calma sembrava essere stato spazzato via da un vento improvviso.

Quando arrivammo alla radura, vedemmo Giulia e le altre ferme vicino al lago, in piedi, con espressioni tese. Stefania era accovacciata per terra, una mano sulla caviglia.

— Che è successo? — chiesi, correndo verso di lei.
— Niente di grave, credo... sono scivolata su una radice bagnata. Ma mi fa un male cane.

Si toccava la caviglia, che iniziava a gonfiarsi sotto il pantalone. Cercava di nascondere il dolore, ma era evidente che camminare non sarebbe stato possibile.

— Dobbiamo riportarla alla macchina — disse lui, già scrutando il terreno. — Non possiamo rischiare che peggiori.
— È lontana — aggiunsi — e il sentiero non è dei migliori…

Ci guardammo tutti, consapevoli che la giornata tranquilla stava prendendo una piega diversa. Eppure, dentro di me, sentivo qualcosa di strano… come se questo imprevisto fosse una prova. O forse, un’opportunità per rimettere i piedi a terra — insieme.

Decidemmo di portarla vicino alle auto, ma non sapevamo se accompagnarla al pronto soccorso o chiamare l’ambulanza. Stefania fu irremovibile: volle l’ambulanza.


Arrivò poco dopo, a sirene spiegate. Una volta sistemata sulla barella e messa in sicurezza, uno dei paramedici chiese:
— C’è qualcuno che vuole accompagnarla?

Tutti abbassarono lo sguardo. Stavo per offrirmi, ma Gianni fu più veloce:
— Ci vado io, — disse con tono deciso, salendo sull’ambulanza.


Prima che le porte si chiudessero, si girò verso di me e mi lanciò un sorrisetto. Non capii se fosse un addio o una promessa.

Tornammo alla nostra postazione in silenzio, rattristati.
Io ero profondamente turbata. Non riuscivo a comprendere la sincronicità dell’evento, né il senso di spaesamento che sentivo.
Con calma sistemammo tutto e rientrammo in città. Il viaggio fu silenzioso, quasi irreale.

I giorni successivi passarono lenti.


Mi immersi nella routine, ma il pensiero di Gianni non mi lasciava mai. Non lo cercai, e nemmeno lui si fece vivo. Ma era come se mi abitasse.


Avevo la sensazione che una parte di me gli appartenesse ormai, e che non ci fosse modo di tornare indietro.
Era diventato come una droga, un’ombra attaccata alla mia pelle.

Passarono le settimane. Poi un giorno Giulia mi telefonò per invitarmi a una festa a casa sua. Stava organizzando una sorpresa per un’amica, ma non mi disse altro.
Mi pregò però di non mancare: "La tua presenza è fondamentale," disse.

La sera della festa arrivò.
Decisi di vestirmi elegante. Scelsi un vestito rosso molto attillato, con la schiena nuda, calze color carne e tacchi alti. Mi truccai vistosamente, con un rossetto rosso acceso.
Non presi la bici: chiamai un taxi al volo.

Arrivai in ritardo. Quando scesi dalla macchina, sentii la musica provenire dalla terrazza dell’appartamento di Giulia.
Salì l’ascensore e, appena entrai, tutti si girarono a guardarmi.

«Come sei bella stasera, una favola!» mi dissero in tanti.

Orgogliosa, sorrisi. Misi la borsa e lo scialle su una poltrona. Ed eccolo: Gianni.


Uscì da una porta. I nostri occhi si incrociarono.


Il mio cuore cominciò a battere forte. Mi passò accanto, mi accarezzò un braccio e sussurrò:
— Sei veramente uno schianto.

Poi si allontanò e uscì in terrazza.

La terrazza di Giulia era uno di quei luoghi sospesi tra sogno e realtà.
Un angolo nascosto tra i tetti del centro storico, elegante, illuminato da lucine calde intrecciate alle piante rampicanti che decoravano il parapetto. Dai bordi si vedevano i tetti antichi delle case vicine, tegole scolorite, comignoli storti… sembrava una scena da film.

In un angolo, un grande tavolo in legno era carico di stuzzichini: tartine, bruschette, olive, frutta, dolci artigianali, vino, prosecco, e vasi di fiori freschi profumati.

Gli invitati erano tanti, vestiti in modo rilassato ma elegante. Chi in lino chiaro, chi in abiti lunghi e leggeri, chi con look più stravaganti. Si brindava, si rideva, si ballava un jazz morbido che rendeva l’atmosfera magica.

Giulia brillava al centro della scena, in un abito verde smeraldo, con i capelli raccolti e un sorriso che abbracciava tutti.
La terrazza non era solo una festa. Era un mondo sospeso.
Pieno di promesse, di ricordi… e forse anche di nuovi inizi.

Ma io quella sera me ne stavo in disparte. L’incontro inaspettato con Gianni mi aveva spiazzata.
Mi salì dentro una malinconia cupa.


Lui si muoveva elegante tra le persone, parlava con tutti, si dava importanza.
E ogni tanto sentivo il suo sguardo su di me. Ma non lo ricambiavo.

Mi sedetti vicino a Carlo, cercando distrazione nella conversazione. Ma la mia attenzione era tutta per Gianni, che sembrava dominare la serata.

Ad un certo punto, Giulia fece cenno di abbassare la musica e prese la parola.

— Amici, vi ho riunito qui stasera per fare una sorpresa alla mia amica Stefania!
Tutti cercarono Stefania con lo sguardo, e lei spuntò da dietro un divanetto, visibilmente sorpresa.

— Quando siamo state al lago qualche settimana fa, e si è infortunata — continuò Giulia — Stefania ha ricevuto un dono inaspettato. Oggi vi presento il suo nuovo fidanzato… Gianni! Vieni!

Il mio cuore vacillò.
Mi sedetti di colpo per non cadere. Bevvi un sorso di vino. Incredula.

Gianni si avvicinò a Giulia e Stefania, le abbracciò entrambe e baciò Stefania davanti a tutti.
— Sono un uomo molto fortunato. Con Stefania ho la possibilità di rifarmi una vita. Lei è la persona giusta per me!

Un applauso esplose tra gli invitati.
Io restai lì, impietrita. Confusa. Addolorata. Tradita. Scartata.
Tutto il mio mondo, che avevo saputo tenere in bilico fino adesso, si sgretolò.

Quasi in trance, senza salutare nessuno, presi la borsa e lo scialle e uscii.
Chiamai un taxi. C’era un evento importante in città, quindi aspettai a lungo sul marciapiede.

Alle mie spalle sentii dei passi. Mi voltai. Era Gianni.

— Questo non cambierà una virgola tra noi — disse con quel tono ambiguo — tu sarai sempre la mia principessa.

Non capivo se stesse scherzando o fosse serio.

Non risposi.
Mi voltai e salii sul taxi appena arrivato.

 


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